Blood river

Acqua per il petrolio

Il terribile scambio tra Tana River e Lamu

A seguito dei tragici attentati di Mpeketoni e Witu nella costa del Kenya settentrionale, dove sono morte più di sessanta persone,  continuano le violenze ai danni dei comuni cittadini keniani della contea di Lamu e nel delta del fiume Tana.

Il 6 luglio almeno 29 persone sono state uccise durante un duplice attacco ai villaggi di Gamba e Hindi. Sarebbero almeno duecento le famiglie di sfollati.

La notte del 7 luglio una gang armata ha fatto irruzione in un ranch nella Contea di Lamu dedicato alla conservazione ambientale. Gli aggressori hanno dato fuoco all’intero campo, bruciando gli uffici e il fuoristrada della Conservancy e rubato tutte le provviste di cibo. L’organizzazione svolgeva un ruolo chiave nella protezione dell’ambiente e delle particolari specie animali che popolano la zona considerata di particolare valore naturalistico.

L’11 luglio una gang armata ha attaccato il villaggio di Pandanguo, nell’entroterra della contea di Lamu, dove sarebbero stati rubati dei fucili dalla stazione di polizia. Diverse abitazioni e persino una scuola elementare sono state bruciate.

Le violenze di Lamu e Tana River Delta. Fattori esterni o interni?

Gli attentati sono stati principalmente attribuiti alla cellula qaedista somala di Al Shaabab, la quale agirebbe in maniera continuativa dal 2011, in risposta all’ingresso delle truppe del Kenya nel Sud della Somalia nell’ambito della missione Amisom, sotto l’egida delle Nazioni unite. La stampa occidentale nell’insieme non esita ad attribuire le responsabilità al gruppo terroristico somalo, sulla base delle rivendicazioni che sarebbero state in seguito effettuate dallo stesso gruppo.

Tuttavia, a uno sguardo più attento, tale attribuzione risulta essere molto meno lineare e scontata di quanto si potrebbe pensare, considerando che esistono in Kenya dei precedenti importanti, in particolare nel caso del noto attacco al centro commerciale di Westgate del 21 settembre 2013, in cui presunte rivendicazioni di attacchi da parte degli Shabaab effettuate attraverso Twitter, si rivelarono in seguito false. Appare dunque impresa assai più ardua, a oggi, attribuire responsabilità chiare sui ripetuti attacchi di violenza che colpiscono il Kenya in maniera sempre più intensa. Sarebbe tuttavia riduttivo ai fini della comprensione, concentrarsi su forze islamiste esterne come il principale o unico fautore di una crisi che a un’analisi più bilanciata risulterebbe piuttosto il prodotto dell’interazione tra diversi  fattori sia esterni che interni.  Nega categoricamente la componente “esterna” della crisi lo stesso presidente del Kenya Uhuru Kenyatta, incriminato assieme al suo Deputy William Ruto, alla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità e non particolarmente in buoni rapporti con le potenze occidentali. Uhuru ha rilasciato pubblicamente una controversa dichiarazione che sostanzialmente escludeva in toto la pista qaedista, definendo gli attacchi come “politicamente ed etnicamente motivati”, a opera di determinate “reti politiche locali”.

L’Mrc (Mombasa Republican Council), movimento indipendentista della Costa, che era stato accusato di favorire infiltrazioni qaediste, ha ufficialmente declinato ogni responsabilità negli attacchi  autoproclamandosi come un movimento pacifico e vittima di tentativi di screditamento.

Il Sette Luglio e gli spettri del regime.

I recenti attacchi hanno colpito le regioni costiere di Lamu e il Delta del fiume Tana in un momento politico molto particolare per il Kenya. Proprio il 7 luglio infatti, marcava un grande appuntamento con la storia, in occasione della ricorrenza del Saba Saba Day (che in Swahili significa “sette/sette”), giornata in cui viene commemorata la manifestazione pro-democrazia repressa nel sangue nel 1990 dal regime di Arap Moi allora al potere.  Quest’anno il Saba Saba ha segnato il ritorno  sull’arena politica dell’opposizione guidata da Raila Odinga, il quale, a seguito della bruciante sconfitta alle elezioni del 2013, si era ritirato in un lungo periodo sabbatico. Proprio quando si riteneva che la sua carriera politica fosse ormai giunta al capolinea, Agwambo (letteralmente “l’imprevedibile” in lingua Luo, la lingua tribale di Odinga) come viene soprannominato dai suoi sostenitori, è risorto dalle sue ceneri mobilitando i numerosi sostenitori per confrontarsi con il governo e chiedere l’apertura al dialogo. A preannunciare l’ eclatante ritorno, nel mese di marzo Odinga aveva lasciato un enigmatico post sulla sua pagina Facebook, rimasta senza aggiornamenti da allora: «È in arrivo una tempesta» e «fornirò ulteriori dettagli molto presto».  Immediatamente  a seguito della chiamata in causa da parte del presidente di “reti politiche locali” negli attacchi di Mpeketoni, in un’area caratterizzata storicamente dalla prevalenza politica dei partiti di opposizione, gli odi sopiti tra le fazioni tribali  sono esplosi sui social dando sfogo ad accuse reciproche in un generale clima di sospetto.  Tuttal’altro che spontaneo, lo scambio incontrollato di insulti dal basso nella sua versione web di surrogato della temutissima violenza fisica, sembra essere accompagnato da massicci tentativi istituzionali di scardinare i meccanismi di tutela della libertà di espressione dall’alto, cominciati con il “Media Act” la legge “bavaglio” ai media, già al primo anno della Presidenza Uhuru.  In questo contesto, il partito di Raila ha scampato per il rotto della cuffia la decisione di un giudice che avrebbe attribuito agli organizzatori della manifestazione del Saba Saba la responsabilità diretta di eventuali danni. Tale sentenza avrebbe creato un precedente particolarmente grave in un ordinamento di common law quale quello keniano, dando carta bianca a eventuali disturbatori ingaggiati appositamente per screditare i movimenti di protesta, pratica questa non inusuale in una paese in cui non servono certo ingenti somme di denaro per comprarsi  l’opera di malviventi e killer.

Uhuru è stato criticato dagli analisti politici principalmente per la sua incapacità di ergersi al di sopra delle divisioni tribali e per il suo fallimento nel garantire la sicurezza del paese, di fronte a un’evidenza di interi contingenti militari impiegati a Nairobi per controllare la manifestazione del Saba Saba indetta dall’opposizione piuttosto che nelle zone costiere bersagliate dalla violenza.

Più che una semplice provocazione, la dichiarazione di Uhuru risulta piuttosto da una strategia politica ben più articolata e che ricorda sotto molti aspetti il celebre “divide et impera” volto all’inasprimento delle latenti tensioni tribali e strumento storicamente prediletto dal dittatore Arap Moi. A ben vedere infatti, non dichiarando esplicitamente quale fosse la parte politica coinvolta nelle presunte “reti politiche locali”, Uhuru ha ottenuto due risultati: da una parte ha lasciato che la rabbia dei suoi sostenitori si scagliasse spontaneamente contro l’etnia Luo rappresentata da Raila Odinga e viceversa, dall’altra non ha precluso il coinvolgimento di fazioni interne alla sua stessa coalizione, che ricordiamo essere attualmente formata proprio dalle due tribù che si sono più aspramente scontrate nel corso delle terribili violenze seguite alle elezioni del 2007 ed ora alleate nelle figure rispettivamente del Presidente e del suo Deputy, i Kikuyu ed i Kalenjin.

Il giro di vite conseguente alla strage di Mpeketoni, ha sorpeso infatti coloro i quali si aspettavano accuse dirette a politici dell’opposizione, con l’arresto, tra gli altri, del Governatore della Contea di Lamu, il quale era stato eletto tra le fila dell’Udf, affiliato alla Jubilee Alliance del Presidente.

Una questione di terra?

La National Land Commission istituita nell’ambito del nuovo quadro Costituzionale per indirizzare le ingiustizie storiche nelle questioni legate alla terra, dalle quali la Costa del Kenya risulta essere particolarmente afflitta, sta attualmente investigando sui recenti attacchi per stabilire eventuali motivazioni legate a processi illegali nell’attribuzione dei titoli di proprietà, fenomeno identificabile come Land Grabbing.

Oltre a essere state quasi simultaneamente teatro di violenze, le due Contee di Lamu e del Tana River Delta hanno in comune molte caratteristiche ben più strutturali. Entrambe possono essere definite infatti zone di estrema importanza e valore sia in termini culturali che naturalistici oggi a rischio perché soggette da poco più di un decennio a crescenti pressioni sulla terra e sulle risorse a essa legate, in primis l’acqua. Queste dinamiche possono essere riassunte sostanzialmente in due ordini di caratteristiche comuni: da un lato, una presenza della proprietà privata minima e quasi inesistente (nel Tana River solo il 4 per cento dei coltivatori possiede un titolo di proprietà), che quindi lascia ampio spazio ai citati fenomeni di accaparramento delle terre, in una sorta di nuovo “scramble for Africa”, dall’altro imponenti piani di investimenti che vedono l’introito di ingenti capitali stranieri provocano l’aumento del prezzo delle terre, lasciando ampio spazio a speculazioni e appropriazioni illegali con lo sfollamento delle popolazioni locali che le abitano attualmente in regime di suolo pubblico o comunitario e alle quali esse attribuiscono un valore ancestrale.

Da anni le organizzazioni ambientaliste denunciano i pericoli per il Tana River posti dagli svariati progetti di sfruttamento economico della regione attraverso grandi investitori stranieri o nazionali, a partire dalle piantagioni in larga scala di canna da zucchero fino alla Jatropha curcas per la produzione di biocarburante.

Un caso che ha suscitato polemiche è quello della cessione di grandi appezzamenti di terra per la coltivazione su larga scala di frutta e verdura destinate interamente all’esportazione nel Qatar, il quale in cambio sponsorizza parte della realizzazione di un altro colossale progetto, il Lapsset. Quest’ultimo sta per Lamu Port South-Sudan Ethiopia Transport e si tratta del più ambizioso progetto mai intrapreso dal governo del Kenya, prevedendo da una parte l’intensificazione delle esplorazioni di risorse energetiche (gas e petrolio) e dall’altra la realizzazione di un massiccio triangolo di infrastrutture tra il Kenya e i due vicini privi di sbocco sul mare avente come vertice proprio il porto di Lamu attualmente in costruzione. Una volta completo, il porto sarà funzionale anche alla logistica del trasporto della frutta e verdura coltivata nel Tana River e destinata all’esportazione, tra gli altri beni e risorse energetiche, petrolio in primis. Il progetto comporta inoltre la costruzione di una rete stradale che partendo dalla Contea di Lamu attraverserebbe tutto il Kenya nord-orientale, dove le esplorazioni petrolifere sono già cominciate. Il cosiddetto “corridoio del nord” si muove lungo l’attuale tratta Lamu-Garissa, fino a Isiolo per poi biforcarsi in direzione rispettivamente dell’Etiopia e del Sud-Sudan.

Tana river. Un copione che si ripete?

Il bacino del fiume Tana dipende dalle sorgenti del Monte Kenya e la catena degli Aberdares situate nel Kenya centro-orientale. Nel suo percorso fino allo sbocco nell’Oceano Indiano il fiume attraversa aree semi-aride dove costituisce una fonte di approvvigionamento idrico quasi esclusiva data la scarsità delle precipitazioni annue. Per questo motivo la popolazione della regione risulta altamente concentrata lungo il corso del fiume dal quale dipendono le sorti sia delle piccole attività agricole, che l’allevamento del bestiame e infine la pesca. Negli ultimi quindici anni, a causa del forte aumento della pressione demografica assieme ad altri fattori legati al cambiamento climatico, la portata media del corso d’acqua si è più che dimezzata lanciando il fiume in uno stato di allarme di particolare rischio durante la stagione secca. Popolazioni sedentarie dedite all’agricoltura e popolazioni nomadi o semi-nomadi dedite invece all’allevamento del bestiame che prima convivevano pacificamente, hanno cominciato a scontrarsi per questioni di accesso all’acqua. Le violenze tra le tribù Orma e Pokomo sono esplose a più riprese e sono andate via via a intensificarsi. Nel solo mese di agosto 2012, più di un centinaio di persone persero la vita nel conflitto. L’estrema gravità della situazione fu immediatamente confermata dal ritrovamento di due fosse comuni nel villaggio di Kilungwani, vicino a Witu che è proprio uno dei centri colpiti dalle più recenti violenze. Ciononostante, la vicenda non ricevette particolare copertura mediatica a livello internazionale e il ritrovamento resta a oggi permeato da un alone di mistero. In quell’occasione infatti,  le autorità dichiararono l’impossibilità di stabilire l’identità delle vittime a causa di una presunta sparizione dei corpi. L’inviato della Bbc sul posto a seguito degli attacchi filmò il villaggio bruciato e la moschea dove furono ammazzati a sangue freddo donne e bambini che lì avevano tentato invano di trovare rifugio. «A giudicare dalla portata dei danni» disse l’inviato della Bbc «possiamo escludere l’ipotesi di una violenza spontanea» alludendo al fatto che le tensioni inter-etniche della zona fossero state organizzate dall’alto per creare un clima di terrore in vista delle elezioni del 2013. Anche in quel caso infatti, come oggi, furono chiamate in causa responsabilità politiche e un ministro fu accusato di incitamento alla violenza. In clima pre-elettorale, l’attuale Presidente scelse invece un approccio ben diverso alla questione, proponendo l’improbabile inserimento di “micro-chip” per il monitoraggio dei ben 300 mila stimati capi di bestiame della zona. Soluzione questa che per quanto futuristica non risolverebbe comunque il problema della scarsità d’acqua crescente.

In mezzo scorre il fiume.

Le similitudini tra i conflitti che da lungo tempo imperversano nel Tana River e i presunti attacchi di matrice islamista odierni non si fermano qui. La matrice comune a tutti e quattro gli attacchi sembra essere proprio il percorso seguito dagli assalitori, che si sono mossi indistrubati lungo la Garsen-Witu-Lamu Road, ovvero la strada che collega Lamu al Tana River per poi proseguire a nord verso Garissa. La stessa strada è ovviamente interessata dagli attuali sviluppi del progetto LAPSSET in quanto corridoio principale per i trasporti da Lamu, dove la prima fase di costruzione del porto è già cominciata. Si legge infatti sul sito web governativo del progetto infrastrutturale «Questa strada è il collegamento principale per l’approvvigionamento dei materiali necessari in fase di costruzione e, una volta che la realizzazione delle prime tre banchine verrà completata, sarà essenziale al passaggio dei carichi merci». Tra i materiali essenziali alle costruzioni vi è evidentemente anche l’acqua, in quanto un servizio della Tv locale Ntv mostra come un sistema di tubature sia stato realizzato di recente per  incanalare la già scarsa acqua potabile verso il sito delle costruzioni.

Vi è inoltre un’incredibile coincidenza, quasi una sovrapposizione fisica dei luoghi che sono stati teatro di scontri tra passato e presente.  Si è già notato come la località di Witu, che costituisce proprio l’epicentro delle violenze dell’agosto 2012, sia divenuta nuovamente il bersaglio di uno dei due duplici attacchi che colpiscono quasi simultaneamente una località del Tana e una della contea di Lamu. Ma a ben vedere, persino la geografia dell’attacco di Mpeketoni non manca di rivelare particolari inquietanti. Sebbene infatti la località appartenga a Lamu in termini amministrativi, in termini fisici essa possiede caratteristiche molto simili a quelle del Tana, in quanto situata in prossimità del lago Mukunganya, oggi noto come “lake Kenyatta” in onore di Jomo Kenyatta, primo presidente del Kenya indipendente nonchè padre di quello attuale. Il lago appartiene al bacino del Tana ed è anch’esso classificato come risorsa idrica di importanza strategica per l’intera regione. La stessa zona fu oggetto di un programma di ricollocazione degli sfollati messo in atto proprio da Jomo Kenyatta alla fine degli anni Settanta e uno studio dell’Università di Nairobi mostra come l’insediamento originato dal programma abbia avuto un impatto negativo sul delicato ecosistema a causa delle pratiche di coltivazione invasive che hanno pesantemente compromesso l’accesso all’acqua potabile e i fragili equilibri del lago.

Nemmeno il villaggio di Gamba risulta nuovo alle tristi cronache. Nel 2011, il noto quotidiano britannico “the Guardian” si era interessato alla località in quanto un’intera comunità era stata da lì forzatamente rimossa allo scopo di creare spazio per le allora proposte piantagioni di canna da zucchero finalizzate alla produzione di biocarburante. Gli abitanti dei villaggi circostanti vivevano nel terrore di essere un giorno mandati via dalle loro case, agricoltori e pastori, cristiani e musulmani tutti uniti nella paura. Era il luglio 2011 e per il “Guardian” la situazione nel Tana era «guerra annunciata». L’articolo si concludeva con la profetica citazione di un ambientalista keniano  «Terre, villaggi e case della gente vengono date via per il profitto di compagnie straniere. A nessuno importa perché niente succede nell’immediato ma il Tana Delta è nel caos. Quando avranno finito di spartirsi il bottino con i loro pezzi di carta…sarà guerra. Il giorno arriverà».

Per saperne di più

https://www.youtube.com/watch?v=q6gIsxUlmuY

http://www.theguardian.com/world/2011/jul/02/biofuels-land-grab-kenya-delta

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