Kenya: i nuovi martiri.

Lotta al terrorismo in Kenya: nuovi martiri e vecchi sistemi.

Pubblicato su Altitude il 23 dicembre 2014

con il titolo “Un’inchiesta di Al Jazeera sull’anti-terrorismo”

“In Kenya, ogni leader che parla di fede musulmana in tutte le sue sfaccettature, incluso il tema del Jihad, viene assassinato”

Abubakar Shariff Ahmed, noto Makaburi – assassinato il 1 aprile 2014.

Una recente inchiesta dell’emittente televisiva Al Jazeera ha attirato l’attenzione sull’esistenza di un programma segreto di “anti-terrorismo preventivo” finanziato da potenze internazionali e portato avanti da figure chiave del governo del Kenya attraverso speciali unità di polizia – le cosiddette “squadre della morte”.  Secondo l’inchiesta, le squadre, formate da unità di polizia anti-terrorismo, servizi segreti e forze speciali (Recce), sarebbero impiegate da alti quadri della polizia e ministero dell’interno per eliminare fisicamente personaggi identificati come “sospetti terroristi” da ricercarsi tra le fila dell’Islam radicale del Kenya.

Tribunali che falliscono, proiettili che giustiziano.

Un poliziotto intervistato con il volto coperto non ha esitato ad attribuire alla polizia l’assassinio dello sheikh noto come Makaburi, già il terzo leader musulmano ad essere eliminato fisicamente in Kenya in due anni. Quest’ultimo aveva fatto parlare molto di sé da quando, nel 2012, il suo nome fu inserito sulla lista nera dell’ONU per legami con la cellula qaedista somala di al Shabaab (sebbene Makaburi abbia sempre negato di essere membro dell’organizzazione) oltre che per il suo legame con un altro personaggio molto controverso, Aboud Rogo, anch’esso morto assassinato, ucciso a sangue freddo da dei cecchini mentre trasportava la moglie in ospedale, nell’agosto del 2012.

Per questi leader la morte sembra agire assai più velocemente della giustizia: tutti infatti erano sotto regolare processo, eppure nessuno di loro è mai stato condannato da un tribunale. Makaburi è stato sorpreso dai suoi killer proprio poco dopo aver lasciato la corte di Mombasa che seguiva il suo caso.

Omicidi irrisolti.

La dinamica delle esecuzioni sembra seguire un copione ormai noto: queste avvengono sempre dinnanzi a testimoni o addirittura in pieno giorno, a dimostrazione del fatto che i killer non temono ripercussione alcuna ed i casi vengono puntualmente archiviati come “irrisolti”. Vi è poi un altro particolare assai inquietante: sia Rogo che Makaburi sapevano che la loro vita era a rischio. “Non è una questione di se, la domanda è: quando verrò ucciso” aveva detto quest’ultimo in un intervista alla BBC in dicembre 2013. Egli era fermamente convinto dell’esistenza di una squadra anti-terrorismo in seno alla polizia il cui scopo è quello di eliminare preventivamente ogni individuo che costituisca potenziali minacce, a suo parare responsabile degli omicidi di centinaia di musulmani innocenti.  Le sue dichiarazioni trovano riscontro nelle istanze avanzate da diverse organizzazioni che si occupano di tutela dei diritti umani: secondo Human Rights Watch, solo tra maggio e agosto del 2013 in Kenya la polizia avrebbe ucciso almeno 120 persone “in circostanze che avrebbero potuto essere evitate” e che tali omicidi extra-giudiziali non sono stati sottoposti ad investigazione dell’autorità competente in materia come previsto dalla legge.  La conferma si ritrova persino nelle dichiarazioni rilasciate privatamente da alcuni poliziotti sia ad al Jazeera che alla BBC in cui essi tranquillamente ammettono che l’obiettivo delle forze dell’ordine “non è la detenzione”. Il verbo “to gun down” (uccidere a colpi di arma da fuoco) sembra ormai talmente diffuso nel gergo della polizia che nemmeno i giornalisti locali si fanno scrupoli nel riportarlo e non di rado sui giornali compaiono titoli del tipo “polizia abbatte sospetti terroristi a Mombasa”. Insomma la polizia stessa intende mandare un messaggio univoco di “tolleranza zero” contro i terroristi ed usa il pugno di ferro nelle moschee. I poliziotti intervistati si giustificano ritenendo sia la cosa giusta da fare per “mantenere la pace nel paese” e, a quanto pare, in molti sono convinti che eliminare le persone equivalga ad eliminare dei problemi per la sicurezza del paese. Pubblicamente però il discorso cambia. In una conferenza stampa a seguito della pubblicazione dell’inchiesta di Al Jazeera, il capo della polizia ha negato l’esistenza di un programma per l’eliminazione dei sospetti di terrorismo ed il ministro degli interni ha accusato apertamente l’emittente televisiva di “minare gli sforzi di combattere il terrorismo” della nazione.

Una proposta di legge controversa.

La diffusione del reportage avviene proprio nel momento in cui viene discussa in Parlamento una nuova misura anti-terrorismo volta a conferire maggiori poteri alle autorità governative in materia di sicurezza nazionale e fortemente contestata dalle organizzazioni che si occupano di difesa dei diritti umani. La proposta di legge intende modificare una ventina di articoli normativi e introdurre nuove disposizioni sul modello del Patriot Act statunitense. Le modifiche proposte includono la detenzione indefinita per i sospetti di terrorismo, la discrezionalità per i servizi segreti di accedere alle intercettazioni telefoniche senza dover ottenere il permesso della corte e infine il terzo e più contoverso punto che impone l’obbligo per i giornalisti di ottenere il “permesso dalla polizia per poter investigare o pubblicare storie sui temi del terrorismo e questioni di sicurezza a livello interno”.

L’iter normativo prevede ora lo scrutinio della proposta di legge da parte di una commissione parlamentare prima che questa venga sottoposta al presidente Uhuru Kenyatta per la firma finale. Quest’ultimo si è espresso favorevolmente nei confronti dell’anti-terror act, definendolo un “passaggio necessario per rispondere al bisogno di sicurezza del paese”.

Non con le armi ma con le idee

Di fronte all’intensificarsi della violenza, altri ritengono che la strategia anti-terrorismo adottata dal governo non farà che acuire la radicalizzazione e il conflitto religioso.

Il malcontento nella regione costiera, a maggioranza musulmana e storicamente all’opposizione rispetto all’élite di governo, è palpabile. Le reazioni della folla sono sempre più violente in risposta ai raid della polizia nelle moschee o alla loro chiusura. Oggi le baraccopoli di Mombasa costituiscono dei focolai di povertà e degrado popolati da giovani sempre più soggetti alla radicalizzazione, in mancanza di alternative ed è proprio qui che gli Shabaab trovano terreno fertile per il reclutamento. Vi è una percezione diffusa da parte delle comunità di fedeli musulmani di essere perseguitati da parte del governo centrale, molto grave in un paese in cui per secoli persone di diversa fede religiosa hanno sempre convissuto pacificamente. Secondo il senatore di Mombasa, Hassan Omar “Non si combatte un’ ideologia con le armi, ma con una contro-ideologia”.

Vecchie pratiche

La storia del Kenya indipendente è fortemente segnata dall’utilizzo dell’omicidio extra-giudiziale per scopi politici: proprio la brutalità della polizia fu oggetto di un rapporto delle Nazioni Unite che rivelava una “strategia sistematica, diffusa e pianificata di uccisioni” nel 2009.  Fu l’impunità diffusa ad accendere la scintilla dell’odio tribale, portando il malcontento di coloro che si identificavano come minoranza esclusa dal governo e perseguitata dalla polizia a sfociare nella violenza che ha tragicamente segnato le contestate elezioni del 2007, a cui ha fatto seguito anche l’apertura del caso dell’attuale presidente Uhuru Kenyatta per crimini contro l’umanità alla Corte Penale Internazionale, recentemente archiviato per mancanza di collaborazione delle autorità keniane.

Non sorprende dunque che oggi simili pratiche vengano applicate nella lotta al terrorismo, non limitandosi alla eliminazione fisica mirata dei capi carismatici di fede musulmana. Ben più numerosi sono infatti i casi di sparizioni e uccisioni più o meno accidentali di comuni cittadini, anche quale conseguenza del banale rifiuto di pagare una mazzetta alla polizia, in un paese in cui la corruzione è dilagante e sotto gli occhi di tutti.

Una richiesta legittima.

Le organizzazioni per la tutela dei diritti umani chiedono a gran voce che le potenze occidentali cessino il supporto alle unità della polizia o altre forze dell’ordine responsabili di maltrattamenti e altre violenze arbitrarie contro individui sospettati di terrorismo.

L’ATPU (Anti-Terror Police Unit) fu creata nel 2003 in risposta agli attacchi all’Ambasciata degli Stati Uniti a Nairobi nel 1998 e di un hotel di proprietà israeliana a Mombasa nel 2002. Da allora il fenomeno del terrorismo si è di gran lunga aggravato con l’intensificarsi degli attacchi e la crescita esponenziale del numero di vittime.  L’unità riceve ingente supporto sia in termini finanziari che di training e logistica da parte degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e di Israele. Eppure quando si tratta di rilasciare comunicati ufficiali, il comportamento della comunità internazionale non sembra differire poi tanto rispetto all’atteggiamento delle autorità locali: rappresentanti dell’ambasciata degli Stati Uniti in Kenya hanno risposto alle organizzazioni di tutela dei diritti umani che ci vorrebbero più prove contro i singoli ufficiali di polizia coinvolti negli omicidi per far si che il supporto all’ATPU venga ritirato. Similmente la Gran Bretagna ha dichiarato “se ci fossero le prove che il nostro supporto all’unità anti-terrorismo in Kenya venisse abusato, prenderemmo immediati provvedimenti”. L’ambasciatore di Israele in Kenya si è rifiutato di commentare i contenuti dell’inchiesta di al Jazeera, liquidando l’emittente come “anti-Israele”, d’altra parte ha riaffermato la forte collaborazione nella lotta al terrorismo tra il suo paese ed il Kenya.

Da anni le organizzazioni per la tutela dei diritti umani sia internazionali che locali raccolgono testimonianze che provano la condotta anti-etica della polizia e pubblicano rapporti molto comprensivi sui numerosi abusi compiuti, ad esempio sui rifugiati ed i keniani di orgine somala, utilizzando il terrorismo come capro espiatorio, in primis il rapporto di Human rights Watch dal titolo “You are all terrorists” (siete tutti terroristi) che documenta 50 casi di tortura ed altri abusi sistematici su base etnica tra cui l’estorsione da parte della polizia nei confronti di migliaia di “presunti terroristi”. Ci si chiede dunque che tipo di prova occorra ancora raccogliere affinchè i governi possano interrompere il loro supporto alle unità di polizia responsabili di simili azioni.

Conseguenze di un’impunità diffusa

Nel frattempo il governo di Uhuru Kenyatta, forte della recente archiviazione del suo caso personale per crimini contro l’umanità da parte della Corte Penale Internazionale, preferisce citare in giudizio i giornalisti e far chiudere le organizzazioni non governative, nel nome della sicurezza. Quanto alla validità della strategia anti-terrorismo intrapresa, finora pare che gli unici ad averne realmente apprezzato gli effetti siano proprio Aboud Rogo e Makaburi. Quest’ultimo non sembrava certo spaventato dall’idea di essere assassinato, anzi, ha colto l’occasione per attirare l’attenzione dei principali media internazionali e parlare della sua causa. In assoluta scioltezza si presentava davanti alle telecamere e non disdegnava le battute umoristiche sul fatto che presto sarebbe stato assassinato. Ma quando il discorso verteva nuovamente sul tema religioso allora la solennità gravava il suo viso: “Morirò solo nell’istante stabilito da Allah, né un minuto prima, né un minuto dopo” disse alle telecamere della BBC. Oggi lui è ritenuto da tanti un martire e molte più persone a Mombasa sono arrabbiate con il governo e con gli occidentali. Quanto invece il Kenya potrebbe fare in materia di efficacia della lotta al terrorismo se solo ad essere rafforzati fossero i suoi tribunali piuttosto che la sua polizia, lo si può ricercare nel dominio dell’ immaginazione.

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