Under Siege

La Nairobi del terrore nei racconti dello staff di World Friends

“L’uccello tessitore è venuto a costruirsi  casa,

ha deposto le uova sul nostro unico albero.

Noi non volevamo mandarlo via,

lo abbiamo osservato mentre si costruiva il nido

e lo abbiamo guardato deporre le uova.

E il tessitore è poi tornato nelle sembianze del padrone

predicando la salvezza a noi, i padroni di casa.

Dicono che venisse da Occidente

Dove le tempeste in mare hanno abbattuto i gabbiani

E i pescatori asciugano le reti alla luce delle lanterne.

Il suo sermone è divinazione di noi stessi

E nuovi orizzonti spaziano al limite dei suoi nidi

Ma noi non possiamo unirci alle preghiere e appagarci delle sue risposte

Impegnati ogni giorno a cercare una nuova casa,

e a ricorstruire nuovi altari

poiché i vecchi templi sono macchiati dagli escrementi del tessitore”

Kofi Awoonor (Ghana, 13 marzo 1935 – Westgate Mall, Nairobi 21 settembre 2013)


Quando ho ricevuto la telefonata del mio collega di World Friends, in un insolitamente assolato sabato pomeriggio di Nairobi, non avevo idea della portata degli eventi che avrebbero scosso profondamente  la capitale keniota per molti altri giorni a venire. Ero appena tornata a casa dopo aver fatto la spesa in un centro commerciale nella zona di Kilimani, un quartiere “bene” non lontano dal centro cittá. Non amo gli ambienti patinati e artefatti dei centri commerciali che si stagliano come miraggi su strade polverose e trafficate, accompagnate da fogne a cielo aperto, battute da mendicanti e bambini di strada; men che meno sopporto di dedicarci del prezioso tempo libero nei miei fine settimana. Ciononstante, in una cittá africana, per quanto cosmopolita, il mall diventa spesso l’unica opzione per poter acquistare beni d’importazione quali la pasta o i formaggi italiani tanto cari a noi “espatriati” che affolliamo la capitale, sede di diverse agenzie delle Nazioni Unite e base logistica di numerosi interventi di Cooperazione allo Sviluppo in tutta l’Africa Orientale.

“Collega!So che non sei la persona che passa il sabato pomeriggio al Westgate…” premette Jacopo “Ma volevo sapere se sei a casa”. Rispondo affermativamente a entrambe. Quella sarebbe stata solo la prima di una serie di telefonate ricevute e fatte per sapere chi tra i miei amici, colleghi e conoscenti si trovasse dove, sperando che non fosse al rinomato centro commerciale della zona di Westlands.

“Nairobbery”, come viene sarcasticamente chiamata per denotarne la propensione al piccolo crimine, è una cittá insicura, dove il divario tra ricchi e poveri si concretizza in tutto il suo squallore e assume le forme piú brutali. Vivere qui significa  abituarsi agli ordinari atti di piccola ciminalitá quotidiani, che vanno dal “furto del cellulare comune” al piú grave car-jacking[1]. Ma questo non era niente rispetto all’orrore che ci siamo trovati a confrontare nei 4 giorni di “attacco al centro commerciale”, cominciato in questo assolato pomeriggio del 21 settembre 2013, da presunti terroristi di Al-Shabaab. Presto me ne sarei resa conto di fronte alle cruente immagini diffuse sui social network.

Sulle pagine web di gruppi a tema come “Nairobi expat social”, nel tardo pomeriggio confluivano giá interi album di foto scioccanti, scattate con i cellulari dai primi superstiti scampati all’attacco terroristico. A causa del loro contenuto, le foto venivano immediatamente rimosse dall’amministratore on-line, ma continuavano ad apparire a gran velocitá. Queste foto mostravano il Westgate in tutto il suo orrore, sotto la forma di cadaveri sparsi per il parcheggio, scontri a fuoco, scene di panico, di feriti e di bambini, molti bambini terrorizzati. Ricordo il mio sgomento davanti all’ immagine di due di loro in piedi sulle scale dell’ingresso principale di Westgate, appena tirati fuori dall’inferno del mall, si leggeva la paura nei loro occhi. Proprio sulle scale dietro di loro, giaceva il corpo di un uomo senza vita. Ho pensato “ la psiche di questi bambini sará per sempre condizionata da questa esperienza”.

Si è trattato di un attacco al Kenya cosmopolita e benestante, composto dalla popolazione agiata, da stranieri e in gran parte da kenioti di origine indiana, ma sono stati barbaramente eseguiti anche i lavoratori precari del supermercato e dei café, dei quali nessuno ha annoverato il nome nella lista di prestigiose vittime pubblicata dai quotidiani locali alla “fine” dell’attacco.

Chi vive qui ha sempre creduto che il Westgate fosse il target ideale per un attentato, sia per il modello di “esclusione”  sociale che esso rappresenta, che per le sue caratteristiche strutturali di “blocco unico”, rispetto ad altri esercizi commerciali piú diffusi e meglio distributi. Eppure stentavo a credere alle orride immagini che vedevo, nonostante queste scene mi scuotessero l’animo nel profondo. Sapevo che a quell’ora, di sabato , quel centro commerciale in particolare sarebbe stato pieno di gente, soprattutto famiglie con bambini.

La notizia non  ha tardato a fare il giro del mondo in diretta e subito hanno cominciato a piovere i messaggi dagli amici in Italia preoccupati. Un amico che è stato in Kenya, sollevato di sapere che non mi trovavo al mall, mi ha scritto per sdrammatizzare “il giorno che attaccheranno i kiosks mi preoccuperó per te”, riferendosi alla mia predilizione per i contesti locali autentici piuttosto che i grandi agglomerati globali da “tutto per gli espatriati”.

Eppure dentro di me sapevo che a quell’ora, di sabato, in quel centro commerciale ci poteva essere davvero chiunque, persino una come me, che pur amando e rispettando gli usi e costumi africani, non rinuncia alla pastasciutta o al pane di una bakery come quella di Art Café. Come potevo dunque trovare conforto nel fatto che per caso io in quel 21 settembre non mi fossi trovata li, cosí come altri conoscenti? In quell’occasione ho pensato che forse poteva davvero avermi salvata il mio gusto per altri tipi di consumo, ma come potevo sentirmi forte o rassicurata da questo davanti a quelle immagini?

Ci trovavamo ormai tutti nella stessa condizione di terrore, il cui obiettivo primario non è tanto mietere vittime innocenti, quanto sconvolgere le abitudini quotidiane dei testimoni (appunto, “terrorizzare”). In questo, l’attacco terroristico di Nairobi é stato un pieno successo. La vita, soprattutto degli espatriati, è di molto cambiata a seguito dell’attentato e le giá tante regole di comportamento e restrizioni da osservare nelle occasioni di socializzazione hanno subito un’impennata con la cancellazione di eventi e la dissuasione alla frequentazione di luoghi pubblici. Alcune persone hanno preso per la prima volta in considerazione opzioni alternative al “fare la spesa”, ad esempio attraverso la consegna a domicilio, altre hanno esordito con esperimenti culinari domestici autarchici, come farsi il pane in casa.

Mi sono sentita “in gabbia” ma ho cercato di reagire. Dopo un fine settimana passato quasi interamente in casa, senza le uscite serali per sentire l’amata musica dal vivo, il terzo giorno dell’assedio é stato forse il peggiore. Colonne di fumo nero provenivano dal palazzo del Westgate e i miei amici che vivono a Westlands le hanno fotografate dai loro balconi e finestre. Per tutto il giorno si udivano spari ed esplosioni accompagnate dal suono dell’elicottero inviato probabilmente per coprirne i rumori, invano. Il suono di quell’elicottero si udiva da ogni parte della cittá, persino qui fino al Neema hospital all’estremo margine Est, ricordandoci sempre che non era finita, nonostante i diversi proclami ufficiali secondo cui la situazione era sotto controllo. Quel giorno non riuscivo neanche a leggere i giornali per l’ ansia che mi causavano queste vicende che non sapevo spiegarmi e credo che nessuno sia riuscito davvero a concentrarsi nel proprio lavoro. Con la testa piena di paure,  quella sera dopo il lavoro, ho deciso di andare comunque a vedere la proiezione di un film al centro culturale francese nel Central Business District (CBD). Ho notato che per la prima volta in quasi cinque anni che vivo a Nairobi, in tutto l’auditorium non c’era nemmeno un bianco. Ricordo i primi tempi in cui andavo alle proiezioni di film d’autore ma vi trovavo quasi soltanto espatriati. Quel giorno invece, era come se gli Africani si fossero “ripresi” la cittá. Sono rimasta lì per tutta la proiezione del film, durante la quale diversi cellulari suonavano in platea e qualcuno addirittura rispondeva alle chiamate senza che un europeo lo zittisse con uno “ssssshhhh”. Nell’auditorium c’era un’atmosfera rilassata e libera. La gente sottolineava con versi di stupore le scene d’amore che lasciavano solo intravedere l’inzio di qualche momento osè. Persino in una giornata come quella, questo paese è riuscito a farmi sorridere.

 


 

[1] Con questo termine si intende il sequestro di un automobile e dei suoi passeggeri/autisti a bordo, i quali vengono solitamente derubati e forzati a prelevare presso gli ATM tutto l’ammontare possibile con le loro carte bankomat o di credito per poi essere abbandonati lungo strade meno battute.

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